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BRACCAGNI

Braccagni è una frazione del comune italiano di Grosseto, in Toscana.
Situato nella parte settentrionale del territorio comunale, sorge ai piedi della collina di Montepescali, che costituisce una delle propaggini sud-occidentali di Monte Leoni. Il paese delimita a nord la piana di Grosseto, al centro della Maremma grossetana. Dista circa 12 km dalla città capoluogo.

La nascita del paese di Braccagni viene fatta risalire al 1846, quando il montepescalino Giuseppe Braccagni (1784 – 1852) aprì nel piano lungo la strada Aurelia una stazione di posta con osteria, nota comunemente come "il Braccagni". Nel 1864, con l'apertura della ferrovia Tirrenica e la realizzazione di una stazione ai piedi della collina di Montepescali, iniziò a formarsi il primo nucleo del paese, intorno alla posta del Braccagni. Nel 1911 venne realizzato un secondo nucleo, il cosiddetto "Braccagni Nuovo" o "Braccio della Stazione", con il palazzo Pieraccini, un mulino ed un'osteria, mentre nel 1922 fu costruita la prima cabina elettrica. Fu deciso poi che dal 1º luglio 1923 il nuovo paese che si stava andando a formare avrebbe preso il nome di Montepescali Stazione, ma tale cambiamento non avvenne mai. Nel 1928 venne asfaltata la via Aurelia che attraversava il paese, prima di allora strada bianca. Con la costruzione della chiesa (1940), del distributore di benzina (1953), della scuola elementare (1954) e del campo sportivo (1954), Braccagni assunse definitivamente l'aspetto e l'identità di un moderno paese rurale.[1][2]
La chiesa di San Guglielmo d'Aquitania
Panorama di Braccagni negli anni cinquanta


  • Chiesa di San Guglielmo di Aquitania, chiesa parrocchiale della frazione, è stata costruita su progetto di Ernesto Ganelli, consacrata nel 1940 ed elevata a parrocchia l'anno successivo. L'edificio è stato oggetto di restauro nel 2014. La parrocchia di Braccagni conta circa 1450 abitanti.
  • Il Braccagni, primo edificio da cui poi ha avuto origine l'eponimo paese, costruito da Giuseppe Braccagni nella metà del XIX secolo come osteria e stazione di posta. Nel 1916 il palazzo risulta essere in pessime condizioni, ma dopo l'acquisto da parte di due sorelle l'intero stabile venne ristrutturato in stile eclettico. Oggi è ancora visibile lungo la strada Aurelia.
  • Palazzo Pieraccini, costruito nel 1911 e situato all'angolo tra la strada Aurelia e via dei Garibaldini, era residenza della nota famiglia locale dei Pieraccini.
  • Fattoria Acquisti, situata pochi chilometri a ovest dell'abitato, è così denominata perché molti dei suoi terreni divennero coltivabili a seguito delle grandi opere di bonifica idraulica iniziate nel XVIII secolo.
  • Centro fieristico del Madonnino, noto anche come Centro FIMAR, grande polo fieristico del comune di Grosseto, è situato nei pressi della fattoria del Madonnino, poco a nord dell'abitato di Braccagni. Il centro fiere è stato completamente rinnovato tra il 2005 e il 2006 su progetto di Marzio Flavio Morini e si presenta come una moderna e funzionale struttura in architettura contemporanea.

NOMADELFIA

Nomadelfia è una frazione del comune di Grosseto e una comunità di cattolici praticanti, che cercano di vivere adottando uno stile di vita ispirato a quanto riportato negli Atti degli Apostoli, e per certi versi simile all'esperienza dei kibbutz o dei falansteri. Secondo il diritto canonico della Chiesa cattolica, è una parrocchia formata da famiglie e laici non sposati, fondata da don Zeno Saltini, mentre per la Repubblica Italiana è una associazione privata di cittadini. Oggi la comunità sorge all'interno del comune di Grosseto.
Nomadelfi non sono tutti i membri della comunità ma solo coloro che, compiuti i 21 anni, decidono liberamente di aderire al modello di vita, definito "proposta", che punta a un ritorno alla "Chiesa delle origini". In Nomadelfia non si utilizza denaro e i nomadelfi che ottengono guadagni fuori dalla comunità li versano a questa che provvede poi a dare a ognuno i beni di cui necessita. Il disabile o l'anziano non vengono assistiti solo dalla famiglia, ma dalla comunità stessa. L'educazione obbligatoria ai bambini viene data da membri della comunità durante l'anno, mentre gli esami annuali sono sostenuti da questi come privatisti.

Nomadelfia nasce negli anni trenta per volontà di don Zeno Saltini, figlio di agricoltori benestanti di Carpi che vive l'infanzia e la giovinezza tra fermenti cattolici e socialisti, in cui convivono realtà e utopia. Ordinato sacerdote nel 1931, raccoglie i primi bambini senza famiglia o comunque abbandonati a San Giacomo Roncole (frazione del comune di Mirandola, in provincia di Modena), parrocchia formata per il 50 per cento da braccianti che hanno un lavoro solo otto mesi l'anno: nasce l'Opera Piccoli Apostoli.
Soltanto molto lentamente gli adulti si interessano al suo problema: a questo punto nascono le famiglie; adulti, sposati e non sposati fungono da genitori non soltanto dei propri ma anche dei figli altrui, dei figli di nessuno. Nascono in questo modo le cosiddette "mamme di vocazione", donne che rinunciano al matrimonio per vivere la maternità in totale castità: madri in famiglie che hanno così numerosi figli, di tutte le età.
I Piccoli apostoli abbattono i reticolati del campo di Fossoli
Nel 1947 don Zeno occupa con loro l'ex campo di concentramento di Fossoli, frazione di Carpi, per costruire la loro nuova città. Dove prima c'erano reticolati, sorge una nuova realtà. Lo scopo principale è dare una accoglienza ai tanti orfani di guerra, con un tipo di assistenza molto diverso dai tradizionali orfanotrofi, perché basato sull'apporto delle mamme di vocazione, con un nuovo concetto di famiglia.
La comunità il 14 febbraio 1948 approva il testo di una Costituzione e l'Opera Piccoli Apostoli prende appunto in quella occasione il nome di Nomadelfia. Il villaggio raccoglie migliaia di ragazzi, viene benedetto da Papa Pio XII, e il cardinale di Milano Ildefonso Schuster, con una cerimonia in duomo, affida a don Zeno quaranta bambini. Nomadelfia è all'apice della notorietà.
Nel 1950 don Zeno propone il lancio di un movimento politico Movimento della Fraternità Umana, propugnatore di forme di democrazia diretta. Questo fatto suscita immediatamente una forte ostilità non solo presso gli organi di governo, ma anche di numerose autorità ecclesiastiche. La comunità raggiunge il numero di 1500 persone, dei quali 800 figli accolti e 150 ospiti (senza casa e senza lavoro). Ne fanno parte, in questo periodo, anche Danilo Dolci e Giovanni Vannucci.
Il ministro dell’interno Mario Scelba sollecita a Nomadelfia una relazione economica-amministrativa. Da questo punto di vista, infatti, la comunità viaggia in acque poco tranquille anche se afferma di avere un patrimonio immobiliare di 613 milioni a fronte di passività per 370 milioni. Don Zeno chiede sovvenzioni, lanciando una campagna per raccogliere addirittura un miliardo. Tra i suoi sostenitori è la contessa Giovanna Albertoni Pirelli, che gli dona un'enorme estensione di terreno presso Grosseto.
Pensando di evitare interventi sia dello Stato sia della Chiesa, Nomadelfia si trasforma: i suoi membri rinunciano al nome di piccoli apostoli, dichiarano di non considerarsi comunità a carattere religioso e si costituiscono in libera associazione civile.
Si diffondono malignità sulla moralità delle famiglie di Nomadelfia, il che suscita la diffidente reazione di molti cattolici; le accuse successive spaziano dall'apologia del comunismo, attuale reato in molte nazioni, all'eresia. Don Zeno è stato soprannominato il prete rosso; ha gridato sulle piazze che i ricchi devono dare ai poveri e che se i ricchi non danno, i poveri devono prendere; in più, don Zeno non smette di parlare né di scrivere, aggravando la sua posizione con le sue affermazioni e le sue tesi sulla famiglia. Nel 1943, Zeno accentua la sua condanna di leggi razziali e fascismo, scrivendo È caduto un regime che ha rovinato l' Italia e incretinito la gioventù... Guai a coloro che credono che essere cristiani significhi essere conigli. Arrestato con l'accusa d'incitamento alla ribellione viene minacciato di fucilazione, ma è liberato poco dopo per timore di tumulti popolari. Il ministro Scelba esercitò grande fermezza nei confronti di don Zeno, protagonista d'iniziative a favore di orfani e diseredati, ma le cui idee progressiste avrebbero potuto essere confuse con l'applicazione degl'ideali comunisti marxisti: tale opposizione a don Zeno e Nomadelfia venne pesantemente criticata da molti cattolici. Infatti il primo terrorista delle Brigate Rosse, che fu arrestato in Italia, era un figlio adottivo cresciuto in Nomadelfia con la madre di vocazione Maria Teresa e fu sempre difeso da don Zeno, che però nelle sue polemiche mai si riferì al comunismo marxista né tantomeno al capitalismo.
Il 5 febbraio 1952 don Zeno riceve dal Sant'Uffizio una Intimatio con la quale gli si ordina di ritirarsi da Nomadelfia e di mettersi a disposizione della sua diocesi o di altra che egli preferisca.
Il decreto che decapita Nomadelfia è firmato dal cardinale Giuseppe Pizzardo, ma più di un motivo lascia ritenere che l'allontanamento drastico del fondatore e leader di Nomadelfia sia dovuto a ragioni politiche, vista l'aperta ostilità dei partiti, in particolare della Democrazia Cristiana. Don Zeno obbedisce, sebbene a malincuore.
Nel giugno del 1952 la comunità viene sciolta con la forza su ordine del Ministro Mario Scelba, i beni vengono ceduti alla commissione prefettizia di liquidazione coatta, le famiglie vengono allontanate, pochi rimangono, la maggior parte dei bimbi viene deportata in vari orfanotrofi.
Nel novembre del 1952 don Zeno è processato per una denuncia dei creditori, ma viene assolto. Si chiude in questo modo l'esperienza di Fossoli.
«In questo paese dove centinaia di enti parassitari succhiano lo Stato, dove si buttano via miliardi per finanziare esposizioni inutili, manifestazioni balorde e stagioni vuote, non s'è trovato niente per aiutare don Zeno e Nomadelfia che mantenevano 700 bambini dispersi e privi di famiglia. Peggio. Quando la situazione precipitò, per essere sicuri che non potessero più sfuggire di mano, che non potessero più rialzare la testa, s'impose per loro la forma più odiosa e peggiore: la liquidazione coatta. Un bel giorno la polizia arrivò a Nomadelfia. I ragazzi furono tolti alle mamme adottive, caricati coi loro fagotti sui camion, e sparpagliati per tutta l'Italia in istituti diversi, da dove scrivono ancora lettere accorate, e di tanto in tanto scappano.»
(Filippo Sacchi, La Stampa, 17 dicembre 1953)

La rinascita vicino a Grosseto

Per aiutare i propri figli dispersi don Zeno chiede quindi a Pio XII di essere dimesso dallo stato clericale. Il papa nel 1953 glielo concede, dicendogli che una volta sistemato il problema avrebbe potuto richiedere il ritorno al sacerdozio.
L'esperienza di Nomadelfia riparte quindi nel comune di Grosseto tra le frazioni di Roselle e Batignano, dove dopo dieci anni di durissimo lavoro i Nomadelfi trasformano una zona arida e pietrosa in una piccola tendopoli. Tende che in seguito saranno sostituite da prefabbricati.
Nel 1962 papa Giovanni XXIII istituisce la nuova parrocchia di Nomadelfia, nominandone parroco don Zeno.
Nel 1965 nascono le serate di Nomadelfia, spettacoli itineranti gratuiti in Italia e all'estero per far conoscere la realtà di questo paese. Tra i primi vescovi a richiedere una serata, segno di una rinnovata attenzione della gerarchia ecclesiastica all'esperienza di Nomadelfia, vi fu il vescovo di Sansepolcro, Abele Conigli. Nel 1980 lo spettacolo viene proposto a papa Giovanni Paolo II a Castel Gandolfo. Don Zeno morirà l'anno successivo. Il 21 maggio 1989 è il papa stesso a visitare la comunità in occasione di un viaggio pastorale a Grosseto.
La comunità di Nomadelfia è stata ricevuta da papa Francesco il 17 dicembre 2016, giorno del suo compleanno. Il 10 maggio 2018 la comunità riceve a propria volta il pontefice.

Nomadelfia (neologismo modellato dai due termini greci nomos e adelphia, e significa dove la fraternità è legge) si definisce come "una proposta", un modello di vita alternativo rispetto a quello proposto abitualmente dalle società occidentali. I suoi componenti, tutti cattolici praticanti (ad oggi circa 350), adottano uno stile di vita ispirato a quanto riportato negli Atti degli Apostoli, e per certi versi simile all'esperienza dei kibbutz o dei falansteri.
  • Non esiste proprietà privata.
  • Le famiglie sono disponibili ad accogliere ragazzi in affido.
  • Si lavora solo all'interno della comunità, e nessuno è retribuito; i lavori più “sgradevoli” vengono svolti a turno da tutti i componenti.
  • I nuclei familiari vengono raggruppati in unità più grandi (3-5 famiglie), che condividono assieme vari momenti della giornata (come i pasti).
  • La scuola per i ragazzi è anch'essa gestita dalla comunità. I ragazzi si presentano poi agli esami come privatisti.
  • Le responsabilità educative sono assunte "in toto" da tutti gli adulti, in una specie di "famiglia allargata".
Per lo Stato Italiano la comunità è un'associazione, mentre dal punto di vista del diritto canonico è una parrocchia comunitaria: al contrario di quanto accade per gli ordini religiosi, quindi, chi lo desidera può lasciare la comunità in ogni momento senza formalità particolari. Il fondatore, don Zeno Saltini, definiva Nomadelfia come una "nuova civiltà", la civiltà dei "liberi figli di Dio, che sarebbero poi i santi".
Il principio ontologico su cui si fonda questa fraternità è che tutti gli esseri umani sono figli di Dio e dunque fratelli e sorelle tra loro: Nomadelfia, nelle sue intenzioni, esiste per dare all'umanità un segno concreto e praticabile che vivere insieme in pace come fratelli e sorelle è possibile.
Nel 2008 la RAI ha dedicato una fiction alla figura di Don Zeno Saltini e all'esperienza di Nomadelfia, intitolata: Don Zeno - L'uomo di Nomadelfia, mettendola in onda, in due puntate, il 27 e 28 maggio.[7]
Tra coloro che, accolti a Nomadelfia, hanno deciso, raggiunta l'età del consenso, di uscirne, spiccano il brigatista rosso Paolo Maurizio Ferrari[8] e Beppe Lopetrone, fotografo di moda internazionale. Lopetrone tuttavia tornò a Nomadelfia negli ultimi mesi della sua vita, e lasciò parte dei propri beni alla comunità.[9] Beppe Lopetrone realizzò con i Nomadelfi un libro fotografico intitolato Don Zeno 100 ANNI.

PRINCIPINA A MARE

Principina a Mare è una frazione del comune italiano di Grosseto, in Toscana.
La frazione è compresa nella circoscrizione n.6 Marina del comune di Grosseto.
Il litorale a sud di Principina a Mare si caratterizza per le classiche spiagge selvagge maremmane, che si addentrano in territori ancora paludosi verso l'Ombrone.[1] Questa zona, denominata "Padule della Trappola", è ideale per il birdwatching, dato l'elevato numero di uccelli palustri che giungono a svernare in questa area; recentemente è stato aperto l'itinerario P1, che attraversa parte dell'area situata all'interno dei confini del Parco naturale della Maremma.
Nel periodo da maggio a giugno, quest'area è soggetto a sciami di minuscoli insetti di tipo Leptoconops chiamati localmente serafiche, che pungono uomini e animali e sono in grado di scatenare violente reazioni allergiche.
Tra i monumenti è da segnalare la torre della Trappola, antica fortificazione medievale adibita a punto di raccolta di sale nei secoli successivi, per la vicinanza ad alcune saline oramai scomparse.[1] Non lontano, sorge anche la cappella di Santa Maria alla Trappola, mentre la cappella delle Strillaie sorge al di fuori dell'area palustre, all'interno di un podere situato nei pressi della strada della Trappola, in prossimità dell'incrocio per Principina a Mare.
Nella frazione si trova la moderna chiesa di Santa Teresa di Lisieux, appartenente alla parrocchia di Marina di Grosseto.

PRINCIPINA A TERRA

Principina Terra è una frazione del comune italiano di Grosseto, in Toscana.
La frazione è situata a sud-ovest del capoluogo comunale, quasi a metà strada tra il centro cittadino e le località costiere di Marina di Grosseto e Principina a Mare. Principina Terra è compresa nella circoscrizione n.3 Gorarella del comune di Grosseto.

L'abitato si è sviluppato durante il secolo scorso nell'area in cui già sorgevano la fattoria di Principina e la relativa cappella gentilizia, la chiesa dell'Annunciazione, che ha svolto le funzioni di chiesa parrocchiale tra il 1960 e il 2009.
L'area in cui sorge l'abitato era lambita dalle sponde dell'antico Lago Prile, quasi totalmente scomparso con le opere di bonifica settecentesche dei Lorena: le acque dell'antico bacino lacustre sono state canalizzate nei vari scolmatori che costeggiano l'abitato intersecandosi tra loro in più punti nella pianura circostante.
  • Chiesa di San Carlo Borromeo, moderno edificio parrocchiale situato nel centro della frazione, costruito tra il 2007 e il 2009 ad opera dell'architetto Domenico Massimo Scopa.
  • Fattoria del Poggiale, situata nella campagna a nord-ovest del paese, si tratta di uno storico complesso poderale appartenuto alla famiglia Pallini. Posta ad ovest del fosso Barbanella, conserva ancora le strutture e i lineamenti di fine Ottocento.

RISPESCIA

Rispescia (già Santa Maria di Rispescia) è una frazione del comune italiano di Grosseto, in Toscana.

La frazione di Rispescia è situata a 11 m s.l.m. nella parte meridionale del comune di Grosseto, oltre il corso del fiume Ombrone che lambisce il paese a nord-ovest, alle porte del Parco naturale della Maremma. L'area è prevalentemente pianeggiante, fatta eccezione per alcuni rilievi collinari come poggio Cavallo (181 m) o poggio Campore (203 m) che pur trovandosi distanti dal centro abitato ricadono nel territorio della frazione.
Il paese è attraversato dal fosso Rispescia (12 km), corso d'acqua che nasce poco a nord di Montiano e si immette nell'Ombrone a ovest del paese. A sud, la frazione è delimitata dal canale artificiale dell'Essiccatore Principale dell'Alberese (8 km), oltre il quale si raggiunge la vicina frazione di Alberese.
La frazione dista circa 7 km dalla città di Grosseto.
La prima attestazione del toponimo Rispescia si ha in un atto di vendita del 2 giugno 1258 dove si legge che il mugnaio Martino di Guglielmo vende ai fratelli Raniero e Ildebrandino di Rustichella un terreno situato presso Grosseto nella «contrada dicta Raspesce», dal nome del fosso affluente del fiume Ombrone. Il corso d'acqua bagnava allora le terre che furono proprietà della Grancia di Grosseto, che faceva capo all'ospedale di Santa Maria della Scala di Siena; in un documento del 7 giugno 1349 si legge che il proprietario terriero di origine corsa Giovanni Arrighi fece dono all'ospedale di un pezzo di terra «nella contrada di Rispescia alla Giuncolella» – quest'ultimo toponimo rimasto solamente nell'odonomastica nella "strada Giuncola" di Rispescia – ed ancora in un inventario del 1430 («iuxta fossatum rispescis») e in elenco di beni di suddetto ospedale del 1469, dove è descritto un terreno che «confina da due lati le vie che vanno a Talamone e di verso Grosseto la bandita e lorti di Rispescia». Questi documenti testimoniano inoltre la presenza nel XV secolo di una via di comunicazione stradale – «via carraria», quindi lastricata – proprio nel punto in cui scorreva il fosso, a sud di Grosseto, ad ovest della strada per Talamone.
La frazione si è sviluppata tuttavia solamente nel corso del XX secolo, a seguito della completa bonifica della pianura maremmana e della seguente riforma agraria. Il villaggio, chiamato in principio semplicemente Villaggio del bracciante, è stato fondato dall'Ente Maremma il 23 dicembre 1951 con la posa della prima pietra da parte dell'allora ministro dell'agricoltura Amintore Fanfani. Il villaggio doveva fungere da centro di servizio e aggregazione per tutti quei poderi e case coloniche sparse nella vasta campagna tra Grosseto, a sud dell'Ombrone, ed Alberese, in seguito al fenomeno dell'appoderamento che prendeva il posto del latifondo e fece registrare un forte flusso di immigrazione verso la Maremma, in particolare dalla Toscana settentrionale e soprattutto dal Veneto.[5] Sempre nel 1951, in contemporanea con l'inizio dei lavori di costruzione del villaggio, il presidente dell'Ente Maremma donò 169 ettari di terreno adiacente all'Ente nazionale assistenza orfani dei lavoratori italiani (E.N.A.O.L.I.), per la realizzazione di un centro che accogliesse gli orfani dei contadini, dotato di fattoria, scuola e cappella.
Il borgo di fondazione era stato progettato con una parte centrale, quella dei servizi pubblici, che comprendeva il campo sportivo e sette edifici (la chiesa, la casa canonica, lo spaccio con circolo ricreativo e bar, l'asilo comunale, la scuola elementare, l'edificio dell'ambulatorio, telefono e alcune botteghe, un ultimo edificio per le abitazioni dei gestori dei servizi) e quella residenziale, con settantanove lotti assegnati ad altrettante famiglie che comprendevano la casa colonica (dette "casette", singole o doppie) e un terreno da 46 ettari cadauna.] Una prima inaugurazione fu presieduta dal ministro Fanfani il 21 dicembre 1952, mentre quella definitiva, a villaggio ormai ultimato, fu tenuta il 6 aprile 1953 alla presenza dello stesso Fanfani, del sindaco di Grosseto Renato Pollini e di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze. Il nome stabilito per il borgo fu Santa Maria di Rispescia, in seguito alla dedicazione a santa Maria Goretti della chiesa parrocchiale;[7] nel corso dei decenni, il toponimo fu ridotto al solo Rispescia.

La chiesa di Santa Maria Goretti.
La fontana del "Cinghialino".

  • Chiesa di Santa Maria Goretti, chiesa parrocchiale della frazione, è stata progettata dall'architetto Carlo Boccianti contemporaneamente all'ideazione del villaggio del bracciante, per volere dell'Ente Maremma. La chiesa fu completata nel 1953 e consacrata l'anno successivo.[9] Gli ultimi interventi di ristrutturazione risalgono al 1993.[9] La chiesa è sede di una parrocchia che si estende anche alle colline orientali oltre il paese e conta circa 1 220 abitanti.[10]
  • Chiesa dell'Enaoli, ex edificio di culto del centro dell'Ente nazionale assistenza orfani del lavoratori italiani, è stato realizzato tra il 1952 e il 1955[11] su progetto di Lorenzo Chiaraviglio.[12] Sconsacrata negli anni settanta, è adibita ad usi culturali dal centro ambientale di Legambiente.
  • Fontana del Cinghialino, situata nella piazza principale del borgo, si tratta di una fontana che reca la scultura in bronzo di un cinghiale.[4] L'opera è una riproduzione del celebre Porcellino di Pietro Tacca e venne donata al borgo di Rispescia dal Comune di Firenze il 6 aprile 1953, nel giorno dell'inaugurazione del villaggio, dalle mani del sindaco Giorgio La Pira.[4][8] Sulla fontana è posta una targa che recita: «Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, alla terra maremmana in Santa Maria di Rispescia rifiorente per la riforma agraria, 6 aprile 1953».[4] La targa originaria è andata smarrita[4] ed è stata sostituita in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione.

ROSELLE

Roselle (Rusel in etrusco, Rusellae in latino), anche Bagni di Roselle o Bagno Roselle se presa in considerazione solamente la parte moderna, è una frazione del comune italiano di Grosseto, in Toscana.

Situata a circa 3,5 km a nord-est del centro cittadino, la frazione si presenta come un moderno centro abitato, che si è sviluppato principalmente negli ultimi due secoli a valle dell'area archeologica di Roselle, dove sorgeva l'omonima città etrusca, romana e medievale, il cui abbandono fu graduale e parallelo all'emergere del nuovo centro di Grosseto, che ereditò la sede vescovile rosellana nel 1138.[2] Alle spalle del borgo si erge il Poggio di Moscona, dove è situato un gran numero di cave di pietra.

La storia della frazione di Roselle risale al periodo villanoviano, per poi divenire sede di un'antica lucumonia etrusca (città-stato amministrata da un re) dell'Etruria centrale, prendendo il posto egemonico della vicina Vetulonia. Il periodo di fondazione si fa risalire al VII secolo a.C.. Fiorente città che governava un vasto territorio che andava dal mare al Monte Amiata, combatté nella guerra contro Tarquinio Prisco insieme agli altri popoli latini, finendo poi conquistata dai romani nel 294 a.C. e diventando municipio romano. Nel 205 a.C. contribuì alla fornitura di grano e legna per la flotta di Scipione l'Africano durante la seconda guerra punica. Sotto l'impero divenne colonia e conobbe un periodo di grande splendore con la costruzione del foro, della basilica, anfiteatro e terme. Nel IV secolo fu eretta a sede vescovile.
La decadenza di Rusellae iniziò nel VI secolo, invasa dalle popolazioni barbare e flagellata dalla malaria che da quel momento avrebbe reso la Maremma una terra povera e poco abitata. Nel 935 la città venne attaccata e distrutta dai Saraceni e mai più ricostruita. Pur continuando ad essere sede vescovile, Roselle risultava pressoché disabitata, mentre a valle lungo il fiume Ombrone andava a formarsi la comunità di Grossetum che cresceva sempre più di numero. Papa Innocenzo II, che aveva trascorso del tempo in Maremma tra il 1133 e il 1137, decise di trasferire a Grosseto la sede vescovile, dando alla comunità il titolo di civitas. Il 9 aprile 1138, con la bolla Sacrosancta Romana Ecclesia, papa Innocenzo II decretò la nascita della diocesi di Grosseto e di conseguenza il declino totale di Roselle.
Roselle rimase abbandonata per secoli e ciò che restava dell'antica città fiorente finì sepolto e dimenticato. Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, con l'innalzamento di Grosseto a capitale provinciale e l'avvio delle bonifiche sotto Leopoldo II di Lorena, l'area di Roselle tornò ad essere abitata e si formò un villaggio a valle del sito antico, nel punto dove sorgeva la chiesetta di San Lorenzo, piccolo edificio di culto a servizio dei viandanti lungo la strada tra Siena e Grosseto, e dove si trovava una sorgente termale, prendendo il nome di Bagni di Roselle. Nel 1824 Leopoldo II inaugurò le terme, per l'appunto definite leopoldine. Nel 1938 fu realizzata una grande chiesa parrocchiale e Roselle tornò adessere un centro abitato popoloso a tutti gli effetti e fu eretta a frazione. Tra gli anni cinquanta e sessanta del Novecento, infine, grazie al contributo dell'archeologo Aldo Mazzolai, la città antica è stata scavata e trasformata in un parco archeologico, facendo di Roselle una località turistica di richiamo del territorio. Con i suoi 3.000 abitanti circa, la frazione risulta la più popolosa del comune di Grosseto.